42. A destra e a sinistra del 25 Aprile
Con la proclamazione dello sciopero generale a Milano il 25 aprile 1945, prese il via la fase finale della guerra di liberazione italiana contro l'occupazione nazista, che portò alla definitiva caduta del regime fascista. Una ricorrenza divisiva e ancora messa in discussione da una certa parte politica ma festa laica di tutti quegli italiani ed italiane che credono nella libertà contro ogni forma di ideologia politica e dittatura. Una festa che dovrebbe unire e che invece ancora divide. Una festa che vede contrapposti ancora le formazioni politiche e culturali che fecero parte del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) e chi invece sosteneva (e ancora sostiene nonostante siano incostituzionali) le "idee" fasciste. Nazionaliste e primatiste.
Al di la della ricorrenza, questo dovrebbe essere un momento di riflessione contro le contrapposizioni tra destra e sinistra, che anzi dovrebbero essere unite in questa celebrazione perché, pur nelle loro differenze storiche, ideologiche e culturali, hanno entrambe interesse affinché la nazione resti democratica e si fortifichi sulla via del dialogo e del confronto leale e pacifico. Soprattutto quest'anno in cui non ci sono state massicce manifestazioni popolari. Nessuno avrebbe potuto prevederlo all'inizio del 2020, mentre era prevedere la ripetizione delle polemiche, che nei sette decenni passati, hanno quasi sempre preceduto, accompagnato e seguito la Festa della Liberazione, insieme a reiterati e sparsi auspici di concordia nazionale nello spirito della Resistenza. Polemiche ben descritte, nella loro evoluzione storica, da un articolo de "il sole ventiquattr'ore" in cui si auspica che questa crisi ci riporti a ragionare sui veri valori unitari della resistenza.
È importante infatti porre l'accento sul come il Fascismo sia stata una degenerazione estremistica di una parte della destra, quella reazionaria e conservatrice, ma per come non va condannata tutta la sinistra per le brutture del Comunismo, allo stesso modo incolpare tutta la destra di essere Fascista è un errore oltre che un falso ideologico. Destra e sinistra possono (e devono) convivere nello stesso arco costituzionale e collaborare affinché dal confronto di idee diverse possa nascere quella sintesi che porti al progresso umano e civile. E invece il 25 aprile è diventato come sempre terreno di scontro feroce in un Paese come l'Italia che non ha ancora fatto i conti con il proprio passato. Un conto che, a guardare bene i fatti, sono in pochi a voler pagare, sia a destra che a sinistra, convinti che il rimarcare determinati ideali ormai obsoleti e di comprovata fallacia sia l'unico modo per differenziarsi: i neo-partigiani da una parte e i neofascisti dall'altra, in una continua spirale di rimbrotti, complotti, urla e bandiere da sventolare.
Sono cresciuto nella dicotomia tra fascisti e comunisti: tra nonni e zii, insegnanti e giornali, termini come fascista e comunista si sono rincorsi negli anni della mia formazione. Ricordo le discussioni tra i miei nonni, uno fatto prigioniero dai nazisti in Grecia e l'altro invece restato in Sicilia, ricordo la rabbia, l'astio che emergeva quando si parlava di politica. E questo astio nonostante 75 anni trascorsi ancora è tutto intero e anzi si alimenta come un fuoco che cova sotto le ceneri. Ora che vivo in Germania e vedo come i tedeschi hanno cercato (e cercano ancora) di cancellare l'onta del nazismo, mi rendo conto che noi italiani siamo ancora molto indietro anche in questo per quanto riguarda la consapevolezza di sé. Ma i tanto vituperati tedeschi hanno avuto i processi di Norimberga, dove i gerarchi e soldati nazisti ancora in vita furono giudicati e messi di fronte alle loro responsabilità, dove si è parlato dei loro crimini e di quelli fatti commettere ai loro sottoposti. Ed è stato così che i tedeschi hanno potuto elaborare la vastità della devastazione creata dai nazisti.
Come ebbe a dire Churchill nelle sue memorie, l'uccisione di Mussolini ci risparmiò una Norimberga italiana, contribuendo così a gettare sulla Germania e solo su di essa le colpe di tutte le brutture della guerra, anche quelle commesse dai partigiani italiani e dagli alleati. Un processo già cominciato durante la guerra di liberazione: la classe dirigente che si apprestava ad amministrare il Paese nel dopoguerra sviluppò una narrazione propria dell'esperienza della guerra, volta ad esaltare il mito della resistenza antifascista e lo spirito cristiano e caritatevole del popolo italiano, contrapposto al militarismo barbaro e sanguinario dell'invasore tedesco. L'obiettivo era quello di dare una descrizione dell'Italia come un Paese che era a sua volta stato vittima dei soprusi germanici, degli italiani come un popolo fondamentalmente buono che mai aveva fraternizzato con quello del proprio alleato. La Germania e i tedeschi diventavano quindi implacabili e sadici oppressori di inermi, violenti e guerrafondai, la demoniaca rappresentazione stessa del male assoluto. Contrapposta all'immagine dell'italiano indisciplinato e intimamente avverso alla guerra, restio a compiere atti di violenza, pronto a solidarizzare con le popolazioni indifese e ad aiutare gli ebrei perseguitati. Mettendo in croce i tedeschi gli italiani volevano slegare i propri destini a quelli degli sconfitti, evitando una pace punitiva e la demonizzazione della propria cultura oltre che l'attribuzione della responsabilità morale a tutto il popolo. La Resistenza venne descritta come lotta nazionale dell'intero popolo italiano artefice di un "secondo Risorgimento" contro l'invasore nazista, titolare invece di tutti i crimini commessi. La Resistenza divenne antitedesca prima ancora che antifascista e venne reinterpretata, paradossalmente, in chiave nazionalistica. La descrizione del bravo italiano indisciplinato e che resiste alle ferree regole tedesche diventò il mito fondativo della nuova nazione italiana antifascista e antitedesca. La creazione di questo mito servì a giustificare o a scaricare sui tedeschi le colpe dei crimini commessi per mano italiana o alleata. Come ha osservato Vittorio Foa, lo scarico delle responsabilità criminali di tutte le parti in gioco in Italia ha reso i tedeschi "una grande risorsa per la tranquillità della nostra coscienza."
Questo non vuol dire certo che la Resistenza non sia un momento fondamentale della nostra storia e che non abbia in parte lavato l'onta del regime fascista che la maggior parte della popolazione ha sostenuto per vent'anni. Deve piuttosto far ragionare su come ancora oggi non ci sia abbastanza coscienza di quella che realmente è stata la guerra: non una contrapposizione tra santi e demoni ma la brutale mattanza tra uomini schierati su fronti opposti. La Resistenza è stata una pagina della nostra storia fatta di luci e ombre, ma ben pochi sono disposti, anche tra i partigiani stessi, a riconoscere che per certi aspetti, ben poco ha distinto le loro azioni da quelle dei nemici che combattevano. Basti pensare alle notevoli critiche da parte della sinistra italiana, ed in particolar modo da parte dell´ANPI a libri come "Il sangue dei vinti", in cui Gianpaolo Pansa racconta delle esecuzioni e dei crimini compiuti da partigiani e da altri individui dopo il 25 aprile 1945, a Liberazione ormai compiuta, verso fascisti e presunti tali o antifascisti non comunisti. Un libro il cui scopo dichiarato era "circoscritto nel raccontare, sottraendolo ai decenni di oblio cui lo ha condannato una certa retorica resistenziale, il destino dei vinti, vittime di una persecuzione non casuale ed organizzata, tesa a realizzare l'egemonia del PCI in guisa che pubblicate dal quotidiano la Repubblica in replica ad alcune critiche al suo libro, «i dirigenti comunisti italiani intendevano indebolire un'intera classe, la borghesia, e sostituire il vecchio ceto dirigente con una nuova leadership in cui il Pci fosse pienamente rappresentato. È esattamente ciò che è accaduto dopo il 25 aprile, in tante località, anche piccole. Dove sono stati giustiziati il podestà, il segretario comunale, il medico condotto, la maestra, l'ostetrica, il possidente o il commerciante più in vista. [...] Accoppando questa gente, e facendo sparire i loro corpi, si creava un vuoto che è stato riempito da un altro ceto»"
E questo non aver fatto i conti con il proprio passato, il tutti colpevoli nessun colpevole, favorito anche da vari decreti di amnistia (il primo su proposta, alla fine della Seconda guerra mondiale, dal Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti), ha impedito alla destra ed alla sinistra italiana di liberarsi da rabbia e rancore che ci trasciniamo ancora da 75 anni. Odi passati attraverso il terrorismo degli anni di piombo, acuiti dalla contrapposizione violenta portata in parlamento dal Berlusconismo e che rischiano, in piena fase post ideologica, con una sinistra a corto di idee e una destra incapace di smarcarsi da certe ideologie reazionarie, di vanificare tutti gli sforzi fatti fino ad oggi per costruire una vera, forte e duratura democrazia nel nostro ancora giovane e fragile Paese.