12. La crisi del 1929
Nel corso degli anni Venti l'investimento in borsa era diventato un fenomeno di massa: sempre più persone investivano i propri risparmi acquistando azioni per poi rivenderle poco dopo incassando la differenza. Nel 1925 nella Borsa di New York si trattavano 500.000 azioni salite a 1.100.000 nei primi mesi del 1929. Inoltre, fra il 1927 e il 1929, il valore delle azioni raddoppiò. Mentre una parte della popolazione investiva fiduciosa in borsa, milioni di americani vivevano in condizioni di sofferenza: i salari degli operai crescevano ad un ritmo molto più blando della produzione e gli agricoltori dell'est assistevano impotenti a una drastica discesa dei prezzi dei prodotti agricoli, causata dalla forte sovrapproduzione. L'aumento del reddito e della prosperità aveva coinvolto solo una parte della popolazione (ad esempio il 5% degli statunitensi possedeva un terzo dell'intero reddito nazionale), mentre il 71% della popolazione possedeva un reddito annuo inferiore a 2500 dollari, lo stretto necessario per vivere in maniera dignitosa. Ciò significava che la maggioranza degli americani, pur avendo migliorato la propria condizione, non era ancora in grado di assorbire tutta la produzione industriale e agricola. L'euforia speculativa di Wall Street crollò improvvisamente il 24 ottobre 1929 (il "giovedì nero"). La borsa aveva ormai perso ogni contatto con la realtà: improvvisamente furono vendute milioni di azioni con un ribasso delle quotazioni apparentemente inarrestabile. I guadagni di mesi scomparvero in poche ore, mandando sul lastrico centinaia di risparmiatori grandi e piccoli.
Come per la crisi del 2008 (con cui molti storici trovano delle analogie) l'insolvibilità dei piccoli risparmiatori aggiunta alla troppa esposizione delle banche nei confronti del mondo finanziario, crearono un effetto domino che inghiottì oltre 5000 banche piccole e grandi e con essi i risparmi di decine di migliaia di persone. Il governo statunitense, nonostante le buone intenzioni del presidente Herbert Hoover, non riuscì a risolvere o quantomeno a tamponare la forte depressione economica. I provvedimenti economici varati infatti si rivelarono inconsistenti e non all'altezza della situazione. Solo nell'inverno 1931-32, quando gli Stati Uniti avevano vissuto già due anni di profonda crisi, Hoover autorizzò alcune misure economiche più incisive (creazione di un ente per erogare prestiti alle banche in crisi, stanziamenti vari a sostegno delle attività produttive). Queste iniziative rinforzarono le strutture finanziarie ma non riattivarono l'economia: la disoccupazione arrivò a toccare punte del 20%, le industrie chiusero e licenziarono mentre migliaia di banche, non rimborsate dei prestiti concessi, fallirono, scatenando il panico fra i risparmiatori.
La crisi si diffuse rapidamente anche all'estero e in particolare in Europa, dove le economie nazionali erano fortemente interconnesse con quella statunitense. Da parte loro gli Stati Uniti cercarono di difendere la loro produzione introducendo misure protezionistiche e sospendendo il credito nei confronti dei paesi esteri: l'effetto di queste misure però fu l'opposto di quello auspicato, poiché condussero ad un'ulteriore contrazione del commercio mondiale. Nel Vecchio continente la crisi di Wall Street ebbe conseguenze gravi in particolare in Germania. Dopo la guerra e le pesantissime clausole del Trattato di Versailles la Germania e la Repubblica di Weimar erano state rimesse in moto dai piani di salvataggio americani Dawes e Young; tuttavia, l'ingente introito di capitali americani rendeva l'economia tedesca strettamente dipendente da quella americana. Con il tracollo azionario del 1929, in Germania e in Austria il sistema bancario collassò, dando il via ad una gravissima crisi monetaria e ad una inflazione galoppante. Il crollo dell'economia tedesca e la conseguente diffusione della disoccupazione costituirono due elementi fondamentali per la propaganda del Partito nazista di Adolf Hitler, che salirà al potere nel 1933.
La vera svolta, anche in termini di fiducia e speranza, si avrà nel 1933 con la vittoria alle elezioni presidenziali di Franklin Delano Roosevelt, che si impegnerà fin da subito per la ripresa del paese, inaugurando una nuova politica economica e sociale che prenderà il nome di New Deal. Questi provvedimenti erano in gran parte suggeriti dal "brain trust", un gruppo di docenti universitari e ricercatori che aveva il compito di consigliare il presidente sulle scelte giuste per combattere la crisi. Facevano parte di questo gruppo di lavoro tre professori universitari della Columbia University (Rexford G. Tugwell, Raymond Moley e Adolf A. Berle Jr.), il giudice Samuel Rosenman e Felix Frankfurter, docente dell'Università di Harvard. Alla legge di emergenza bancaria fecero seguito altri importanti provvedimenti atti all´assorbimento della disoccupazione, come uno stanziamento di 500 milioni di dollari per impiegare i disoccupati in programmi di lavori pubblici (costruzione e manutenzione di strade, scuole, parchi, campi gioco ecc.) o l'istituzione del Civilian Conservation Corps (CCC), che dal 1933 al 1942 assoldò oltre tre milioni di disoccupati che furono destinati a curare la manutenzione e la conservazione delle risorse naturali. Lo stato forniva loro un riparo, dei vestiti, del cibo e un salario di 30 dollari al mese (una parte del salario doveva essere però inviato alle famiglie). L'abrogazione del proibizionismo e la libera produzione e vendita delle bevande alcoliche, regolarmente tassate, comportò un aumento delle entrate comunali e federali, e stimolò anche la creazione di nuovi posti di lavoro. Roosevelt intraprese anche una riforma del sistema fiscale ed in particolar modo delle imposte dirette. Con la legge sulle entrate del 1934 fu disposto l'aumento delle aliquote per i redditi più alti. L'anno successivo con legge del 30 agosto 1935 furono aumentate le imposte sui redditi più elevati: l'aliquota più alta passò infatti dal 63% al 75%. Con la legge delle entrate del 1936 l'aliquota che colpiva i redditi più alti subì un ulteriore aumento sino ad arrivare al 79%. Questi provvedimenti scatenarono le critiche dei conservatori e dei ricchi uomini della finanza americana che furono appellati da Roosevelt "monarchici dell'economia", portatori di avidità e di egoismo.
Il New Deal mutò radicalmente i rapporti fra economia e politica, fra i cittadini e lo Stato. Grazie all'energia e alla fiducia che Roosevelt inculcò negli americani con le sue "chiacchiere al caminetto" e i suoi discorsi, i cittadini statunitensi iniziarono a rinunciare al sentimento di rassegnazione che aveva accompagnato i primi anni della depressione. Il New Deal gettò le basi del "welfare state", un sistema in cui lo Stato assicurava alla popolazione dei diritti fondamentali come l'assistenza e la vita dignitosa in caso di disoccupazione o vecchiaia. Mutò anche il ruolo dello Stato nell'economia: il potere pubblico non era più un semplice spettatore ma, viceversa, aveva acquisito un ruolo di regolazione del sistema economico al fine di scongiurare la nascita di forti tensioni sociali. Mutò radicalmente anche il ruolo dei sindacati che fino ad allora venivano visti dagli imprenditori come pericolosi nemici da combattere. Roosevelt li coinvolse nei suoi provvedimenti assicurando loro protezione.
I risultati del New Deal sono contrastanti. I disoccupati, che nel 1932 erano 12,5 milioni, nel 1937 scesero a 7,5 per poi risalire a quota 10 milioni nel 1938, anno in cui ci fu una nuova crisi economica. Nel 1940 i disoccupati erano di nuovo scesi a quota 8 milioni. Solo la Seconda guerra mondiale, con l'industria bellica a pieno regime, riuscirà ad assorbire altri senza lavoro. Il New Deal probabilmente non favorì una piena ripresa economica ma gli americani percepirono l'era Roosevelt come un periodo caratterizzato da forte fiducia e ottimismo, e "come una fase in cui la politica aveva saputo dare risposte efficaci alla crisi economica e alle difficoltà dei cittadini". Non a caso Franklin Delano Roosevelt fu l'unico presidente statunitense che governò per ben quattro mandati essendo stato sempre rieletto con ampie maggioranze di voti (57,4% nel 1932, 60,8% nel 1936, 54,7% nel 1940, 53,4% nel 1944)